lunedì 30 aprile 2018

Elogio del bere a. CC. – Cedrata Tassoni

Una carrellata su quello che bevevano i ragazzini negli anni dell’Italia ancora in bianco e nero, degli anni ’50, '60, un’Italia che potremmo definire ancora a. CC. , ovvero Ante CocaCola, anche se questa in Italia era arrivata con gli Americani, alla fine della seconda guerra mondiale.



Il cedro, assieme al pomelo (non è un errore e non è il pompelmo) ed al mandarino, è ritenuto essere uno delle tre specie di agrumi da cui derivano tutti i membri del genere oggi conosciuti. 
Come gli altri agrumi, ha le sue origini nell'Asia sudorientale, all'incirca nel Bhutan, è giunto in Europa in tempi remoti, già Plinio il vecchio nella Naturalis Historia ne parla chiamandolo "mela assira".
A quei tempi ancora non si usava il frutto come alimento, il suo utilizzo a tale scopo si sarebbe diffuso solo due secoli dopo, era invece usato come repellente per gli insetti nocivi come le zanzare, in maniera analoga alla citronella.
In Italia il cedro è coltivato e lavorato in Calabria, nella fascia costiera dell'alto Tirreno cosentino.
Il nome cedro, derivato dalla volgarizzazione dal latino “citrus”, è ambiguo, in quanto coincide con la traduzione di “cedrus”, nome dato alla conifera, i famosi cedri del Libano che fornirono il legno per tante imbarcazioni nel mondo antico, e lo forniscono ancora oggi per le scatole di sigari avana garantendone meglio la conservazione. Ecco perché in alcuni testi per l'agrume viene usato anche il termine “citro”.
La pianta di Cedro (l’agrume) è un arbusto che può raggiungere i 4 metri di altezza. 
Il frutto è grande 20-30 cm, giallino, ovale o quasi rotondo, talvolta con una leggera protuberanza al peduncolo e un po' appuntito dalla parte opposta. 
La buccia è molto ruvida ed eccezionalmente spessa, costituisce fino al 70% del frutto, per cui solo un 25-30% del cedro è commestibile. 



Tornando alla cedrata, molto in voga negli anni '70, in Italia è sinonimo di Tassoni. 
E’ tecnicamente una bibita analcolica a base di essenza di cedro, dal classico colore giallo, grazie alla presenza di specifici coloranti, prodotta negli stabilimenti nella cittadina di Salò.
Secondo gli storici, già nel XVIII secolo alcuni speziali (farmacisti) della Riviera Gardesana si dedicarono a valorizzare le apprezzate caratteristiche del cedro realizzando, mediante sapiente distillazione di infusi idroalcolici ricavati dalla buccia del frutto, gli alcolati di base per la preparazione dell’Acqua di Tutto Cedro a gradazione moderatamente alcolica.
La Tassoni inizia come Spezieria nel 1748, viene riconosciuta come Farmacia nel 1793, nel 1884 assume un carattere industriale, si divide la distilleria dalla Farmacia dando così vita e impulso alla Cedral Tassoni, destinata a divenire azienda dinamica e attenta principalmente a tutte le soluzioni offerte dai frutti del cedro e di cui l’Acqua di Tutto Cedro rappresenta la primogenitura.
Nel 1921, ad opera di Carlo Amadei, si crea un nuovo prodotto, la Cedrata Tassoni, uno sciroppo dal gusto originale che il mercato accoglie con entusiasmo.
Sono già comprese le necessità dell’industria moderna: far conoscere il nome del prodotto investendo in pubblicità, i manifesti della Cedral Tassoni rappresentano un classico del gusto pubblicitario anni ’20 e ’30.
Negli anni ’50 dall’originale sciroppo del 1921, addizionandolo con acqua e soda, nasce la Tassoni Soda, la bibita gassata e rinfrescante definita “la Cedrata già pronta nella sua dose ideale”, è questa che poi si chiamerà Cedrata Tassoni. 
Ancora ricordo lo spot pubblicitario del 1973, trasmesso a Carosello, aveva per colonna sonora un jingle cantato da Mina:
Quante cose al mondo puoi fare?
Costruire? Inventare?
Ma trova un minuto per me! 
Per voi e per gli amici ... Tassoni

domenica 29 aprile 2018

Elogio del bere a. CC. - Chin8 Neri

Una carrellata su quello che bevevano i ragazzini negli anni dell’Italia ancora in bianco e nero, degli anni ’50, '60, un’Italia che potremmo definire ancora a. CC. , ovvero Ante CocaCola, anche se questa in Italia era arrivata con gli Americani, alla fine della seconda guerra mondiale.


Il chinotto oggi non è “cool”, non è “new” e non è “trendy”, è bevanda del secolo passato, ma io lo bevo comunque in omaggio alla mia infanzia.
Non tutti lo sanno che il chinotto è un frutto, un piccolo agrume, Citrus Myrtifolia, dal cui estratto si ricava quel succo che ha qualità straordinarie di retrogusto. 
Pianta originaria della Cina (da cui il nome) arrivata in Italia, pare, nel 1500 a Savona, dove ancora si coltiva commercialmente. Il Chinotto (bevanda) quindi è fatto con il Chinotto (agrume).

Nel lontano 1949 Pietro Neri, un giovane appena trentenne, lanciò in Italia una bibita innovativa che subito incontrò il favore del pubblico: il "Chinotto".
La bottiglia non aveva etichetta e mostrava interamente un liquido scuro, simile a quello di alcune bibite made in USA ma con un sapore nuovo ed assolutamente originale.
Contraddistingueva la confezione la scritta "Chin" con un grande "8" in rilievo sul vetro; il lancio fu supportato da una pubblicità che cadenzava lo slogan: “Non è Chinotto, se non c'è l'8
Non c'era ancora la Tv, grandi automobili americane, Cadillac, Chrysler, Plymounth, solcavano le strade italiane con sopra gigantesche bottiglie di plastica della forma originale del Chinotto Neri. 
Cinema, radio, manifesti, altoparlanti urlavano lo slogan che appoggiava tutti i prodotti Neri: “Se beni Neri … Ne ribevi”. 
Una frase di grande effetto e suggestione, che i consumatori si riferivano l'un l'altro, nei bar, e nelle bocciofile, come un nuovo cin-cin.



Questa la storia antica del “chin8neri”, il primo nome del chinotto. 
Nel 2000 un gruppo d’industriali della Campania, dotato di elevato kow-how del settore, rileva il marchio e lo stabilimento di produzione, con imponenti investimenti, ripercorre le glorie del passato, forte della tradizione della qualità che ancora persiste nel vissuto dei consumatori di questo straordinario prodotto dal sapore raro: dissetante dolce amaro.

sabato 28 aprile 2018

Cottura alla brace


Quel sabato si organizzò un allegro pranzo di festeggiamento. 

Il pranzo si svolge in un paesino alle pendici dell’appennino tra Lazio ed Umbria coinvolgendo un trittico di case che con gli anni si era andato via via costituendo. 
Piccolo borghetto alle pendici della collina su cui è ridossato il paese, all’estremità opposta rispetto a dove sale la strada asfaltata. 
Alla fine di una lunga scalinata di quelle con i gradini bassi e lunghi, adatti più al passo di muli e somari da tempo scomparsi che a quello degli uomini. 

La tavola è imbandita in una casa al cui interno un intrigante architetto ha creato una metaforica piazzetta: 
  • selciato grezzo e quadrato di cotto antico; 
  • parete con scala, illusione di borgo arroccato e turrito; 
  • colori sin dall’origine già volutamente lesi, stinti, sapiente miscelati tanto che la loro somma cambia ad ogni variazione di luce; 
  • grande camino di materiale tufaceo, col fondo nero, lucida e catramosa testimonianza di braci ed arrosti, di calore ed uso.

Il pranzo semplice ed efficace. 

Per primo penne lisce all’Ulisse.
Ricetta trafugata da un noto ristorante veneziano, mi è impossibile trascriverne esattamente la ricetta, mi limiterò a menzionare gli ingredienti che vi ho identificato. 
Ricetta mediterranea, forse Ulisse rappresenta con il suo peregrinare la ricerca di così tanti ingredienti fusi in modo inusitato? 
Abbiamo ben quindici ingredienti: 
  • pomodorini rossi, di quelli grandi un’acino d’uva, 
  • poi rugosi capperi eoliani e lisce olive nere di gaeta, 
  • noci e mandorle, 
  • aglio e basilico, 
  • salvia e rosmarino, 
  • parmigiano e cacetti affumicati,
  • salmone affumicato, 
  • olio d’oliva.
Mi hanno detto, senza rivelarmeli, che ce ne sono altri due per quanto già detto non li trascrivo.



Per secondo, carne alla brace. 
In questo caso nessuna ricetta, semplicemente: buona carne, un grande e comodo camino, e, soprattutto, strumento e competenza. 

Per quanto riguarda la competenza il padrone di casa ha elaborato un rigido, ma efficace, protocollo per la cottura alla brace:
1.    Raggiunta una quantità sufficiente di brace, contenuta, al centro del camino, all’interno di una staffa di ferro alta circa 5 cm a forma di “U”, si procede alla sterilizzazione della griglia mediante esposizione alla brace per 2 minuti.
2.    La griglia è successivamente pulita mediante spazzolatura veemente con apposita spazzola metallica, tempo medio di pulitura 1 minuto. La griglia pulita è deposta sulla destra del camino.
3.    Il camino è pulito con una piccola scopa di saggina dei residui di cenere, legna, delle incrostazioni della griglia.
4.    La brace viene spostata di circa 50-60 cm, agendo con molle da camino sulla staffa di ferro ad U che la circoscrive, nella parte più a sinistra del camino. Operazione semplice ma intensa che generalmente comporta spontanea depilazione degli arti impegnati dell’operazione per autocombustione della peluria preesistente, il fenomeno si accompagna ad abbondante sudorazione dell’operatore coinvolto.
5.    Si procede al caricamento della griglia con le carni: bistecche di manzo, filetto di manzo, costolette di capretto, salsicce di maiale a grana grossa, salsicce di fegato a grana fine. L’unico problema è l’accoppiamento di carni con tempi di cottura analoghi e l’ottimizzazione dell’utilizzo della superficie della griglia.
6.    Con l’apposita paletta metallica si preleva la brace dalla sinistra del camino per distenderla in uno strato sottile di nuovo al centro brace, al di fuori della staffa di ferro ad “U”, per una dimensione che ecceda leggermente quella della griglia.
7.    Parallelamente si getta qualche altro ciocco sulla brace rimasta a sinistra per assicurarsi un’adeguata riserva nel caso di cottura su più passate di griglia.
8.    Si passa alla cottura ponendo la griglia sopra il piccolo strato di brace al di fuori della staffa di ferro ad “U”.
9.    Si provvede per il tempo che sarà necessario alla rotazione periodica della griglia, eventualmente rinforzando la brace con qualche altro scarico di paletta metallica.
10.  A cottura completata si pone la griglia sulla parte destra del camino per provvedere alle operazioni di scarico su piatto di portata e salatura.
11.  Completata la cottura si compie l’operazione inversa di cui al passo N° 4, traslando nuovamente la brace all’interno della staffa ad “U” verso il centro del camino.
12.  Si conclude con nuova spazzolatura del camino atta ad assorbire le tracce di unto derivanti dalla scolatura dei grassi attraverso la griglia per il tramite della cenere impalpabile formatasi.

In merito a questo protocollo innanzitutto si assicura che i risultati sono eccellenti. 


In secondo luogo si ricorda che a Dio sono bastati solo 10 comandamenti per regolare la vita dell’Uomo, in questo senso si ritrova la conferma al ben noto fatto per cui la cottura alla brace è ben più complessa della vita dell’Uomo. 

venerdì 27 aprile 2018

Parabola sulla relazione contrattuale

Spesso siamo clienti, più raramente fornitori, in ogni caso pratichiamo entrambi i lati di quella strana relazione cliente/fornitore che nei casi più complessi è formalizzata da specifici contratti.
Dovremmo avere sempre presenti questi due lati della relazione ma spesso ci scordiamo di vedere le cose dal punto di vista dell’altro.
Ecco perché spesso alla fine di una lezione di management propongo a chi m’ascolta, tipicamente dirigenti della pubblica amministrazione interessati all’acquisto di servizi informatici, una parabola sulla relazione contrattuale, serve 
  • per riderci sopra assieme … 
  • per ricordarci i punti di vista dell’uno rispetto all’altro … 
  • per non scordarci mai di dialogare realmente …

Un uomo in una mongolfiera si rende conto di essersi perso. 
Riducendo l'altitudine scorge in basso un altro uomo che cammina solitario su un prato. 

L'uomo in mongolfiera scende ancora un po' e gli grida:
"Mi scusi, mi può aiutare? Ho promesso ad un amico d'incontrarlo un'ora  fa, ma non so dove sono". 
Risponde l’altro guardandolo a testa all’in su dal prato:
"Lei e' in una mongolfiera fluttuante a circa 10m da terra e si trova tra  i 40 e 41 gradi latitudine Nord e tra i 59 e 60 gradi longitudine Ovest".

Grida l'uomo dalla mongolfiera:

“Lei deve essere il capo progetto di un importante fornitore di servizi informatici".

Risponde l'altro sul prato:

"Si' e' vero! Lavoro per una importante azienda informatica. Ma come lo sa?"  
Risponde l'uomo in aria
"Beh … tutto quello che mi ha detto è tecnicamente corretto ma non ho idea di cosa farci con le sue  informazioni, e sta di fatto che resto perso. Francamente non mi è stato di grande aiuto finora!".

Quello a terra replica: 
"Lei deve essere il responsabile degli acquisti di un’amministrazione pubblica".  
Risponde l'altro perduto nel cielo:
"Si, e' vero! Lavoro per il Ministro che trasformerà la pubblica amministrazione modernizzandola e rendendola più efficiente, ma come l'ha capito?

Dalla terra la risposta è immediata e circostanziata:
"Beh … Lei non sa dov'è e dove sta andando ed è' salito fin lassù grazie ad una enorme  quantità d'aria gonfiata.  
Ha fatto una promessa che non aveva idea di come mantenere e si aspetta che la gente che la circonda sia in grado di risolvere i suoi problemi.  
Sta di fatto che lei si trova ancora esattamente dov'era prima che c’incontrassimo ma, adesso, per qualche strana ragion è diventata colpa mia".    

giovedì 26 aprile 2018

Dove sono? E' ora di svelarlo ...

E' ora di svelare dove sono!


Centro propulsore della civiltà etrusca, dichiarata nel 2004 Bene Patrimonio dell’Umanità UNESCO, la Necropoli di Cerveteri, che si snoda per più di due chilometri, è la più imponente di tutta l’Etruria e una delle più monumentali dell’intero mondo mediterraneo. 
Le tombe monumentali, entro tumulo, sono scavate e in parte costruite nel tufo. 
Si tratta di monumenti che testimoniano il desiderio delle famiglie aristocratiche di mostrare la loro ricchezza e di perpetuare nell’aldilà un livello di vita di altissima qualità.
In tal modo possono spiegarsi gli accumuli di beni di lusso quali vasellame in metallo prezioso, oreficerie, vasi figurati, bronzi, oggetti provenienti dalle zone del Vicino Oriente e dalla Grecia, oltre ad armi, cinturoni, rasoi, fibule, gioielli. 
Suggestivi gli interni, che imitano le case dei vivi a più ambienti con porte e finestre sagomate, colonne e pilastri, soffitti a travicelli e a cassettoni, mobili, letti funebri, talora suppellettili. 
Interessanti, inoltre, le tombe cosiddette “a dado”, che si allineano su vie sepolcrali a maglia regolare e ci restituiscono l’immagine di un contemporaneo quartiere urbano.

Dove sono? Aggiungo indizi fotografici

Dove sono?

Aggiungo indizi fotografici ...




Dove sono?

Dove sono?






mercoledì 25 aprile 2018

Altopiano del Golgo

La prima volta che sono capitato in questo luogo d’incantevole bellezza, l’Ogliastra,tra i più suggestivi dell’isola, situato lungo il versante orientale della Sardegna, compreso tra le cime del Gennargentu e il Mar Tirreno, è stato nel 1982, quando dopo la laurea mi sono perso in Sardegna, per quasi due mesi, vagando con un amico a bordo di una moto Guzzi.

Nel paese di Baunei, nel nord dell'Ogliastra, arrivai per la prima volta a cavallo di una Pasqua, un paio d’anni dopo, quando ebbi la folle idea di fare l’intero periplo della Sardegna in una settimana, non perché non avessi già percorso tutte le coste ma per poterne svelare l’incanto a tre amici che per la prima volta erano in Sardegna.
Il nome Baunei potrebbe derivare:
  • dal greco "bainos", una fornace per la fusione dei metalli o per cuocere le tipiche rocce calcaree per ottenere la calce; 
  • oppure più probabilmente dal fenicio “baun”, che significa “luogo munito”, protetto.
Il paese è infatti situato su un costone calcareo a circa 500 metri d’altezza, attraversato dalla strada Orientale Sarda, la strada che da Olbia scende sino a Cagliari. la vista spazia sull’anfiteatro di montagne che lo racchiudono sulle quali svettano le cime più alte del Gennargentu.
Il territorio è tormentato, ferito da valli anguste e profonde, “codule”, che sfociano a mare fratturando vertiginose pareti calcaree, in un paesaggio aspro, irruvidito da rupi, falesie, profonde gole, doline.
Il mare è a una manciata di chilometri ma il territorio è come se fosse staccato da esso, rinchiuso in sé stesso, con la sua caratterizzazione fortemente pastorale.

Nella “Relazione sull’Isola di Sardegna” di W. H. Smyth, pubblicato nel 1828, l’autore non è tenero nel descrivere le genti che abitano Baunei:
Tra Monte Santo e Capo Comino, distanti venti miglia, vi è la baia di Orosei, completamente priva di scogli sommersi e banchi di sabbia; ma da Monte Santo si estende per undici miglia in una pericolosa sequenza di scogliere perpendicolari di considerevole altezza, tra i cui dirupi giacciono numerosi tronchi da legname abbattuti e svettano olivastri.
Questa distesa ferrigna è separata alla base da due gole, che formano le baie chiamate Cala Sizini (Sisine) e Cala di Luna, entrambe con spiagge a ciottoli, dove le barche possono rimanere durante il bel tempo o al riparo dalle violente burrasche occidentali. 
Comunque esse non dovrebbero essere frequentate, eccetto che nei casi di bisogno, perché i nativi di Dorgali e Baunei sono tra i più crudeli e infidi dell’isola, e la ciurma delle navi potrebbe essere sterminata semplicemente con dei massi lanciati dalle cime che le circondano.
Non a caso il nome originario del Monte Santo era Monte Insanus, che meglio si adatta all’angosciata relazione di Smyth, successivamente deformato in “Santo” per il riscatto delle genti del luogo.

Nell’ “Itinerario dell’isola di Sardegna” di A. Della Marmora, pubblicato nel 1860, il paese è riscattato dall’accusa di banditismo; che il tempo lì si sia fermato è testimoniato da un passaggio in riferimento ai numerosi bronzetti nuragici rinvenuti nei suoi dintorni:
Il villaggio di Baunei sorge sul versante meridionale del massiccio, nel punto in cui comincia il deposito calcareo; vi abita una popolazione industriosa e dedita al lavoro, ma per il resto poverissima, per cui è soprattutto in questo paese e in pochi altri dei dintorni che si mangia il pane di ghiande. 
Un ex vicario di Baunei, il dottor Marcello, è stato il primo a riunire una certa quantità di idoli sardi in bronzo che ha raccolto nel territorio della parrocchia; la collezione fu in seguito collocata nel museo privato del viceré, duca del Genevese. 
È stato il primo nucleo della bella e numerosa raccolta di bronzetti sardi che ora costituisce uno dei vanti del Museo Archeologico di Cagliari.
Si vedrà altrove che gli abitanti di queste province furono gli ultimi a persistere nell’idolatria.

Tante altre volte ci sono tornato, nell’Ogliastra, a Baunei, eppure in tanti anni che visitavo questo territorio, non avevo ancora scoperto l’Altipano del Golgo, nel Supramonte di Baunei, ad 8 km dal paese, dove l’orientale Sarda, scendendo da Dorgali, poco prima di arrivare a Baunei, è respinta all’interno, lasciando spazio ad una vasta area.

Un luogo che mi è stato “regalato” nel 2012, da uno dei suoi abitanti, Paola, originaria di Baunei, che mi ci ha condotto e me lo ha svelato.

Un ambiente selvaggio, dove pecore, capre, asini, maiali e perfino tartarughe trovano facile dimora.

Un ampio pianoro, ricoperto da una colata di scura lava basaltica, separato dal mare dalle creste biancastre di montagne calcaree, che rendono accecante la dirupata e faticosa discesa verso il mare.


Un panorama che sa di montagna, vecchi stazzi per gli animali da pascolo e “cuili”, rifugi per i pastori, ormai abbandonati, lecci secolari, fitta boscaglia, macchia odorosa, e roccia, tanta roccia.





Un paesaggio disseminato di suggestive, intriganti, enigmatiche, testimonianze storico/archeologiche, che racconta una millenaria frequentazione umana:

  • la spaventosa voragine carsica, “Su Sterru”,esplorata per la prima volta nel 1957, tra le più profonde d’Europa fra quelle a campata unica, profonda 290 metri che ha dato origine misteriose leggende: una racconta che in un tempo lontano l’intero altopiano era in balìa di un mostro feroce, “Sa Serpente”, una sorta di drago malefico che ogni tanto usciva dalla voragine di “Su Sterru” pretendendo sacrifici umani; un giorno però arrivò San Pietro, il quale, messo al corrente della situazione, decise di risolvere il problema sconfiggendo “Sa Serpente”; un’altra versione narra che nel momento in cui San Pietro scaraventò a terra il malefico mostro, si aprì nel suolo dell’altipiano la voragine di “Su Sterru” inghiottendo “Sa Serpente”.


  • un “circolo megalitico”, una serie di rocce conficcate verticalmente in modo da creare un cerchio, monumento funerario, risalente ad un’epoca addirittura antecedente quella nuragica;
  • le numerose “Tombe dei giganti, nascoste dalla fitta vegetazione, sepolcri in muratura di epoca nuragica, di dimensioni ciclopiche, costituite da un lungo corridoio coperto, la cella funeraria vera e propria, preceduto da un’esedra semicircolare, al centro della quale si trova una piccola porta;
  • il nuraghe, di “Genna Sarmentu”,un nuraghe complesso, realizzato in blocchi di basalto, che, circondato di macchia mediterranea,  svetta su un cucuzzolo dal quale si intravede la parte centrale dell’altopiano, strategicamente posizionato a difesa dello stesso;
  • le emozionanti pozze, “As piscinas”,vasche basaltiche dove l’acqua piovana ristagna tutto l’anno, in un luogo dove altrimenti l’acqua scarseggia; conche naturali modificate nella forma dai Nuragici in modo da poter essere sfruttate durante le procedure di lavorazione dei metalli, in cui si praticavano anche riti di tipo magico - animistico legati al culto delle acque;









  • le particolarissime vasche, chiamate “Us Pressos”, che permettevano ai pastori e ai loro animali di affrontare l’aridità della stagione estiva; la particolare situazione idrogeologica dell’altipiano, un territorio calcareo praticamente privo di sorgenti a cielo aperto, dove le più piccole quantità di acqua potabile risultano sempre preziose, ha costretto i pastori a sviluppare competenze specifiche nella realizzazione di piccole vasche di raccolta dell’acqua piovana, ad integrazione delle “As Pescinas”, di solito ricavate adattando le intercapedini stesse della roccia calcarea; quando un pastore individuava una di queste intercapedini in una posizione adatta, per pendenza e caratteristiche delle rocce circostanti, a raccogliere l’acqua piovana, procedeva all’otturazione, con pietrame di varie dimensioni, delle eventuali fessure che altrimenti, se non adeguatamente trattate, avrebbero impedito la stagnazione del prezioso liquido; solitamente “Us Pressos” venivano coperti con rami di ginepro, sia per evitare l’evaporazione dell’acqua, sia per scongiurare la caduta di animali nella pozza; una costante e adeguata manutenzione ha permesso a tante vasche di arrivare integre sino ai giorni nostri, tuttora funzionali alle esigenze dei pastori che ancora frequentano l’altipiano;
  •  la semplice e suggestiva chiesa campestre dedicata a San Pietro, costruita tra 600 e 700, con le offerte dei pastori dell’altipiano che non volevano perdere gli appuntamenti religiosi più importanti, dalla spigolosa bianca facciata che si staglia sullo sfondo delle montagne;

  • il “Betilo antropomorfo”, situato nel piazzale di fronte alla chiesa, oggetto unico nel panorama archeologico sardo, studiato dagli anni ’70; con il termine “bètilo” gli archeologi si riferiscono a statue in pietra, stilizzate, di epoca nuragica, solitamente posizionati nei pressi delle sepolture collettive, con una precisa funzione rituale, vigilano sull’incolumità della tomba e sulla pace dei defunti che vi sono seppelliti; i più antichi bètili generalmente hanno forma conica, a volte rappresentano fattezze umane solitamente ottenute mediante incavi circolari, da interpretarsi come occhi aperti; il bètilo antropomorfo dell’Altipiano del Golgo, per il volto in rilievo molto ben definito nei tratti fisionomici, è considerato un reperto tra i più significativi dell’arte nuragica, un volto distaccato, impassibile, in piena frontalità come vuole l’astrazione geometrica e simmetrica: un volto veramente di pietra.


L’Altopiano del Golgo nasconde un’altra mirabile sorpresa, costituisce una porta d’accesso a quello che dal 1995 è stato denominato "Monumento Nazionale Italiano".


Un accidentato sentiero, sconnesso e sassoso, parte dall’Altipiano del Golgo, discende un dislivello di 470 metri, snodandosi tra alberi di leccio colossali, rocce dalle forme bizzarre, ovili in disuso, porta in poco meno di due ore sino al “monumento”, la risalita durerà quasi il doppio del tempo.



Si passa sotto un monolite verticale, alto 143 metri, di bianco calcare, una sorta di imponente dito indice di roccia che s’eleva verticale, scalato per la prima volta nei primi anni 80, è considerata una delle più difficili ascensioni d’Italia, una sorta di guglia naturale, chiamata anche “Agugliastra”, da cui, secondo alcuni storici, deriverebbe il nome della regione che la racchiude, l’Ogliastra.



Fitta boscaglia ripara dal sole quando la meta è prossima, all’inizio di una sorta di scala ritorta incastonata nella roccia. 
Lì, in piedi sul primo gradino, rimiro incantato il “monumento”, una fantastica ricompensa della fatica fatta per arrivarci.



Mi si svela una spiaggia incontaminata e selvaggia, come fosse un dipinto nato da una fantasia da sogno, oppure come un sogno dal quale non ci si vorrebbe svegliare mai. 
M’inebria il fulgore di colore indaco che la ghiaia chiara della spiaggia conferisce all’acqua. 
Non ho mai visto la spiaggia da questa prospettiva, di abbacinante bellezza, di grande trasparenza. 
Sulla destra c’è perfino un arco di roccia, nella parte terminale a mare della parete rocciosa che circoscrive la spiaggia.



Sono arrivato a Cala Goloritzé, nel mezzo di quel tratto di costa dominato dalla roccia a picco, tra Cala GononeSanta Maria Navarrese.
Un incanto, così dipinta dalla luce di primavera. 
Il richiamo dei colori dell’acqua in cui si specchia la macchia lussureggiante delle piogge invernali è irresistibile. 
Questi tipi di spettacoli m’inducono un animale desiderio di possesso che riesco a sublimare, più che soddisfare, solo con un’immersione totale nel luogo. 



Cala Goloritzé l’immersione totale richiede inderogabilmente un bagno. 
Peraltro uno dei miei personali riti è quello del primo bagno della stagione.
Quell’anno, nel 2012, è stata la prima volta che ho fatto l’amore con Cala Goloritzé.
Si potrebbe credere che abbia erroneamente scritto “ho fatto l’amore con Cala Goloritzé” per intendere “ho fatto l’amore a Cala Goloritzé con qualcuno”. 
Non è così, per assurdo che sembri, credo si possa fare l’amore con una spiaggia, un luogo.



Ho fatto l’amore con Cala Goloritzé.
I piedi a inizio stagione, ammorbiditi dall’inverno, fanno male sulla miriade di sassolini che dona all’acqua un colore d’incanto, il fondale è trasparentissimo. 
Impossibile resistere, mi spoglio e sono in acqua.
Ghiacciata, è sempre fredda, anche d’estate, a causa di numerose sorgenti di acqua dolce che provengono dalla montagna e dal fiumicello che passa vicino.
So bene che la sofferenza dei primi cinque minuti sarà ricompensata. 
Faccio brevi scatti di nuoto in stile libero, rabbiosi, per scaldarmi, corti per permettere al diaframma di riprendere a funzionare, consentendomi di respirare.
Sono abituato ai bagni estremi. 
Appena il diaframma si normalizza, il respiro è sicuro, inizio a nuotare a rana per risparmiare la testa e le orecchie al gelo. 
Percorro in acqua l’intera lunghezza della spiaggia, lento, soddisfatto di questo primo bagno in un luogo così unico. 
Non ho voglia di uscire. 
M’allontano da riva per rimirare la torreggiante parete in cui s’insinua il sentiero che ho disceso.
Sono ancora a nuotare felice senza timore per l’ardua fatica del ritorno, richiesta dai 500 metri di salita che incombono. 
Favetta fresca e pecorino sardo mi daranno l’energia necessaria.

Oggi che sono qui a scrivere in una nuova primavera, appena tornato dalla terra che m’incanta, la pelle s’aggrinzisce come se fossi in quell’acqua gelata solo a ricordare quel bagno amoroso con Cala Goloritzè.

Sono contento di aver avuto come guida per scoprire l'Altopiano del Golgo una sarda, Paola, innamorata, come me, della sua terra, che mi ha guidato qui come se mi svelasse un suo personale tesoro nascosto.
Il tesoro l’ho trovato davvero:

  • nel fulgore dei luoghi che emozionano, quelli che ho raccontato, a cui si aggiunge la Tomba dei Giganti di Osono, un monumento megalitico lungo 22 metri, con un corridoio sepolcrale di circa 10 metri, al quale si accede da un ingresso con un grosso architrave, realizzato e coperto con grossi blocchi di pietra;


  • nella ospitalità antica, elargita all’ombra della vecchia torre di Santa Maria Navarrese;
  • nei culurgiones di patata, di cui sono ghiotto;
  • nel piacevole raccontarci, di Sardegna e di noi.


Grazie Paola per quello che mi hai svelato e permesso di condividere con te.