mercoledì 21 marzo 2018

Un’epopea grandiosa sospesa tra verità e sogno


C’è un libro, di Sergio Atzeni, intitolato “Passavamo sulla terra leggeri”, che rappresenta un’esperienza di lettura diversa, anomala a se stante.
 
E’ un libro moderno, nel senso di scritto di recente, nel 1995, che ci parla come fosse uscito dalle pagine di un vecchio narratore mitologico, come Omero, e ci trasporta con il suo scrivere in una tradizione orale che narra dell’alba dei tempi e delle genti che li hanno scanditi.
 
Per altri versi è un libro sulla felicità, quella felicità di vivere riflessa nella libertà espressiva che esplode nel ritmo gioioso, scintillante di una danza. 
 
La singolare avventura nel tempo che il libro dipana di fatto profeticamente realizza il progetto sognato dall’autore:

“Io credo che la Sardegna vada raccontata tutta ... se avrò vita cercherò di raccontare i paesi, uno per uno, e tutte le persone, una per una.
Non credo che avrò vita per fare questo, ma cercherò di farlo perché tutto merita di essere narrato.
Credo che le vite di tutti gli uomini meritino di essere in qualche modo ricordate, trasmesse”.
 
L’autore non ha avuto vita, pochi giorni dopo l’invio del libro all’editore è morto in mare, annegato, nei paraggi dell’Isola di Carloforte.
 
Ciò nonostante questo libro la Sardegna l’ha davvero raccontata tutta, almeno, come si è detto, sino al tempo in cui ancora per un sardo ne valeva la pena.
 
 
Atzeni riesce, a distanza di quasi tre millenni da Omero, ad usare così efficacemente una forma narrativa desueta come il mito, tanto da illuderci di non stare leggendo ma ascoltando un racconto orale antecedente alla capacità di scrivere delle genti di cui narra.
 
Vera esperienza di viaggio nel tempo.
 
Infatti la lettura del testo coinvolge il lettore, implicato in veste di ascoltatore, al punto da riuscire a confonderlo e operare l’incredibile metamorfosi che lo porta dal leggere a illudersi di un’esperienza narrativa vissuta sotto il segno dell’oralità.

Il testo appare perfetta imitazione di un racconto orale, di quelli che in una lontana epoca in cui nessuno sapeva leggere e scrivere raccontavano:
 
“la storia delle donne e degli uomini che hanno vissuto prima di noi nell’isola dei danzatori, madri e padri forse a noi simili per dolcezza e sorrisi o per la follia che non sappiamo dove nasca”.
 
Il ritmo modulato sulla scansione di una frase poetica come “Passavamo sulla terra leggeri” può alludere alle consuetudini di vita dei S’ard.
 
Secondo il significato fantastico dell’inventata lingua degli antichi, sono questi i “danzatori delle stelle” che interrogavano il cielo, facevano sacrifici, conoscevano i numeri, misuravano le distanze e le orbite celesti.
 
La forma plurale dell’imperfetto “passavamo” evoca una dimensione del tempo, continuo, condiviso.
 
 
Passavamo sulla terra leggeri è la storia di un’epopea grandiosa, sospesa tra verità e sogno, della civiltà sarda.
 
Essa viene raccontata dall’anziano narratore Antonio Setzu, un custode del tempo, a un bambino di otto anni che, a sua volta, diverrà custode e in punto di morte la trasmetta a un altro.
 
La memoria, dunque, di un’epopea mitica che attraversa i millenni e che inizia coi leggendari abitatori dell’isola, fino alla caduta, con la battaglia di Sanluri, nel 1409, del giudicato di Arborea, un regno a tutti gli effetti, per mano aragonese.
 
Delimitazione cronologica per nulla casuale, che trova spiegazione al termine del libro:
 
“Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto”.
 
Questo è un libro che sicuramente appartiene ai sardi e alla Sardegna, perché ne scava l’intimo più profondo.
 
Al tempo stesso è un romanzo che dovrebbe stare in ogni libreria, in ogni casa, di chi ama i romanzi semplicemente meravigliosi: perché la sua ricerca è una ricerca a ritroso delle radici comuni, per mostrare meglio il presente, per immaginare il flusso del domani.
 
 
Sono due i protagonisti che attingono alle risorse della memoria collettiva per tessere le trame di una storia millenaria.

Il primo è un narratore-scrittore, il bambino diventato adulto, che, passati trentaquattro anni dalla sua investitura come custode del tempo, assolve il compito di trasmettere le memorie degli antichi in forma scritta (una sfida all’usura del tempo, al “velo della memoria”) interrompendo una lunga tradizione di oralità, ma senza tradirne le forme, il fascino, la naturalezza comunicativa.
 
Il secondo è Antonio Setzu, narratore orale, ultimo di una lunga catena di custodi delle antiche memorie, che racconta e insieme interpreta con partecipazione emotiva e con coscienza critica la storia passata esercitando una funzione didascalica come si conviene a un maestro e al suo impegno etico.
Non a caso in apertura è dominante la voce del narratore-scrittore che, nel fare il bilancio della sua singolare esperienza, prospetta le tappe di un percorso iniziatico in questa rapida sintesi:
 
“Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò la storia e quel che seppi era troppo, era pesante, immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell’uomo, del mondo e della morte. Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola”.
 
 
Ho saccheggiato frasi dal libro di Atzeni, non per tentare un inutile riassunto, solo per dare una piccola sensazione di un opera che ho letto d’un fiato rimanendone avvinto.
 
Anche oggi che nuovamente l’ho letta ne sono stato ancora una volta ammaliato, mentre leggevo fissavo alcune parole, non so perché, l’idea di scrivere del libro è venuta dopo.
 
 
Non so definire la parola felicità. Ovvero: non so che sia la felicità.
Credo di avere sperimentato momenti di gioia intensa, da battermi i pugni sul petto, al sole, alla pioggia o al coperto, urlando (a volte vorrei farlo e non si può, sarebbe giudicato segno di disturbo mentale) o da credere di camminare sulle nuvole o da sentire l’anima farsi leggera e volare alta fino a Dio (è capitato di rado).
È la felicità? Così breve? Così poca?
Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è felicità.
Passavamo sulla terra leggeri come acqua ...
... come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.
Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri.
Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is.
Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita.
Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.
I bambini del villaggio crescevano assieme fino al rito che li faceva maiores.
Due o tre vecchie li guidavano sui monti, nei campi, negli ovili, per mostrare la vita mentre avviene, nei cicli, nei mutamenti, nella morte.
Le vecchie riconoscevano fin da piccoli i nemici giurati che senza motivo da grandi avrebbero cercato di uccidersi a vicenda.
Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell’isola. Eravamo felici.
Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle.
Non lasciavamo altre tracce che i nuraghe, le navi di bronzo di Urel di Mu e i piccoli uomini cornuti, guardiani dell’isola, che molti fecero imitando Mir. Nessuno sapeva leggere e scrivere.
Passavamo sulla terra leggeri come acqua.

 

 

8 commenti:

  1. un libro che ho avuto il piacere di conoscere grazie a te, e che ha raccontato la storia della mia amata isola in maniera quasi poetica...

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    1. Forte, non sapevo che eri pure qui. io mi sto impratichendo e a breve mi trasferisco qui, l'altro blog non mi funziona e me lo farò bannare

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  2. È tra le letture in programma prossimamente.

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    1. Qualcosa al di fuori dei canoni della scrittura moderna, mi ha emozionato molto.

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  3. ☺️...mi ci ha portato un paio d’anni fa mio marito, ma prima di ieri non ero mai entrata nel blog...mi ha incuriosito il fatto che ti appresti a lasciare libero(cosa che condivido) per cui ho voluto sbirciare...è da tempo che medito di abbandonare, anche se lascerei in mano a chissà chi, tutto quello che ho scritto...

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    1. Puoi cancellare il blog, io non posso farlo, ormai non riesco nemmeno ad entrare, continuerò qui, mi pare un "luogo" più tranquillo.

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  4. Non sapevo si potesse farlo per cui ti ringrazio (se avessi bisogno posso contare sulla tua consulenza?)...il mondo blog di Google+ è anche per me una scoperta, io l utilizzo per postare le mie foto, ora cercherò di capirne anche le dinamiche...

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