Il primo libro che ho letto sulla Sardegna me lo prestò uno zio alla fine degli anni ‘70.
Forse è proprio questo libro che mi ha insegnato a viaggiare in Sardegna.
Oggi ne ho ritrovato una versione digitale in rete che ho immediatamente scaricato, contento come se avessi trovato un piccolo tesoro.
E’ un libro di un francese, Gaston Vuillier (1846-1915), ritrattista francese molto conosciuto e amato, che illustra opere di Chateubriand e di Mérimée, saggista e collaboratore di diverse riviste, per una delle quali - il "Journal de voyages".
Vuillier compie un viaggio nelle Baleari, in Corsica e in Sardegna, scrivendo vari servizi che raccoglierà in un libro, intitolato “Les îles oubliées: les Baléares, la Corse et la Sardaigne, impressions de voyage”, Paris, Hachette, 1893.
In italiano tradotto con il titolo “Le isole dimenticate la Sardegna impressioni di viaggio”, per la parte che riguarda la Sardegna.
Scrive Vuillier:
"La Sardegna fu una visione abbacinante: in questa terra sconosciuta agli Italiani medesimi, dove i costumi d'altri tempi hanno conservato la loro originale bellezza conobbi da vicino, familiarmente, il farsetto di velluto, ed il medioevo trascorse ogni giorno al mio fianco, come se il mondo non avesse ruotato per quattro o cinque secoli".
Con queste parole, tratte dalla nota al lettore, Vuillier anticipa la sua scrittura visiva, icastica, dove le sue attitudini e qualità di pittore passano per osmosi alla penna, in un libro ricco di caratterizzazioni, di immagini forti, di colori. Immagini vive, arricchite da sessantotto incisioni.
Giunge a Porto Torres e quando, dopo una tempesta in mare vede per la prima volta le coste isolane, affida le sue sensazioni a un acquerello:
"Il cielo si colorò di rosa pallido e sagome di montagne si dipinsero davanti a noi. Questa è la Sardegna".
Poi però annota che il primo paese che visita è "triste e povero, con case basse, dove si vedono errare bambini smunti, e il suo porto pare uno stagno".
Vuillier descrive anche le città: Sassari, "l'incantevole", Alghero, dove ha "la piena illusione della Catalogna", e una Cagliari ventosa, nella quale si anima nel visitare Castello e la cattedrale, descritta accuratamente negli interni.
La “scoperta” della Sardegna dura poco più di un secolo, dagli ultimi decenni del Settecento alla fine dell’Ottocento, sono arrivato tardi.
Si conclude proprio con Gaston Vuillier ed il suo “Les îles oubliées: Les Baléares, la Corse et la Sardaigne”.
Dopo, i viaggi usciranno dallo schema dell’informazione, seppure illeggiadrita talvolta da interpretazioni sentimentali e colorazioni poetiche, ed ispireranno opere più decisamente letterarie, come Sea and Sardiniadi David Herbert Lawrence, 1921 e “Sardegna come un’infanzia” di Elio Vittorini, 1936.
Quella delle acque morte (paludi e stagni) è una vera ossessione per Vuillier, che vede nella malaria la causa della cappa di povertà che opprime l'isola, devastando la salute dei suoi abitanti e divenendo il simbolo di un oblio antico, che gli antichi dominatori hanno tra loro perpetrato e che ora continua con lo Stato unitario, che nei mesi del suo viaggio ha vita ormai trentennale.
Ne propongo un piccolo brano dedicato a Macomer dove ho fatto il militare d’inverno, nel 1983-84, assaggiandone il clima direttamente sulla mia pelle.
Da questo brano si coglie bene quest’aspetto che, a tratti, oscura i colori delle sue pagine, che si accendono specialmente nelle descrizioni della natura, delle foreste ancora folte e numerose, dei costumi colorati dei paesi.
MACOMER
All’estremità di quest’altopiano che i sardi coltivano, bene o male, fra i blocchi di roccia, Macomer guarda dall’alto dei suoi basalti; si vede il declivio delle colline, la pianura senza confini e, da lungi, il Gennargentu, cima bianca di neve nell’immensità della terra e del cielo.
Macomer, antico borgo fatto di frantumi di lava, s’èrannicchiata su una terra talmente aspra e rude, che gli alberi non osano aggrapparvisi.
Intorno all’ammasso delle sue basse dimore non si ha sotto gli occhi che nuraghi in rovina, tombe di giganti, altopiani deserti, piane desolate, dalle quali svettano l’arido monte Santo Padreed il tetro Lussurghi.
In fondo alla pianura delimitata da contrafforti elevati, il gigante della Sardegna, il Gennargentu, alza maestosamente la sua fronte calva spesso argentata dalla neve, e quasi sempre coronata da nubi.
I venti fischiano in ogni stagione, urlano e singhiozzano intorno a Macomer, che il maestrale maledetto esaspera per settimane e settimane ancora.
Poi, quando quest’uragano si placa, arriva il sole, che arde i basalti; dopo di che, dal surriscaldamento delle paludi, degli stagni, dei fiumi, nasce una pericolosa febbre.
L’autunno, lo vedo, sferza questo triste suolo con piogge glaciali. Da queste colline assisto ora a corse scapigliatedella bruma.
È proprio il cupo paesaggio che conveniva a lunghe lotte, dopo la disfatta in cui soccombette la libertà dei Sardi.
«Il nostro clima non è malsano», dice la gente di qui; «ma a condizione di evitare le infreddature».
Tuttavia, numerosi fra i Macomeresi muoiono di polmonite o di febbri reumatiche, aventi una duplice causa: prima, il passaggio improvviso dal caldo al freddo, poi l’avvelenamento miasmatico.